La Terra funziona come noi

Eredità sociale di un contadino del “non fare”

Onorio Belussi vive ad Adro (BS), dove coltiva il suo podere secondo i canoni dell’agricoltura naturale di Masanobu Fukuoka. Uno dei primi in Italia a praticarne il metodo e la filosofia, tanto da scrivere il libro La rivoluzione della natura terrestre (2007). In questa intervista ci racconta la sua esperienza.

Onorio, ci puoi spiegare i principi dell’agricoltura naturale, così come l’ha insegnata il giapponese Masanobu Fukuoka?

Se dopo Copernico riusciamo a vedere la Terra non più al centro del cosmo, con Fukuoka possiamo non immaginare più il dio come al principio della natura. Nel bosco, l’umanità non coltiva ma ne raccoglie i frutti perché è assistita dalla natura selvatica, nel coltivare invece prende i prodotti soltanto perché è aiutata dal dio addomesticato.

L’agricoltura naturale è un metodo di produzione che sta nel mezzo tra l’assistenza ottenuta dalla natura selvatica e l’aiuto avuto dal dio addomesticato. Il suo principio viene definito del “non fare” perché coltiva assistendo molto la natura selvatica e si raccoglie aiutando poco il dio addomesticato.

In pratica per coltivare col “non fare” si è solamente costretti a osservare in quale modo nasce, cresce e sparisce la materia; intuire come ottenere prodotti senza usare energia; conoscere come fa la pianta a mangiare e a bere; collegare il proprio sentire con la sostanza della terra; unire le composizioni fisiche con le reazioni chimiche e riconoscere che la vita divina è anche un fine e non soltanto un mezzo naturale.

Con questi principi l’agricoltura naturale si presenta come una scienza agricola non solo materiale ma anche spirituale e quindi la si può definire anche un sapere filosofico e una conoscenza religiosa.

Puoi raccontarci il percorso che ti ha portato all’agricoltura del “non fare”?

Fino a 15 anni ho lavorato nei campi con la mia famiglia formata da contadini mezzadri, poi ho aiutato i miei famigliari a fare gli ambulanti e a 30 anni ho iniziato a vivere da solo. Per campare ho lavorato da dipendente in alcune ditte private, poi nel comune locale e infine sono diventato pensionato.

A sette anni, oltre ad andare a scuola, incominciai a lavorare nei campi e quindi ho provato la fatica del vangare, zappare, arare, erpicare, fertilizzare, rompere e rastrellare il terreno, potare la vite e sporcarla di solfato di rame e di zolfo, pulire la stalla e portare il letame da distribuire e sotterrare nel suolo.

Perciò è facile comprendere la mia meraviglia quando nel 1987 lessi La rivoluzione del filo di paglia di Masanobu Fukuoka, dove scoprii che si poteva coltivare, produrre e campare col “non fare”.

Compresi subito che questo modo di coltivare era adatto alla mia mentalità e al mio comportamento, ma mi mancava la materia prima e l’energia primaria e cioè il terreno agricolo da coltivare e la necessità di produrre per mangiare.

Grazie al suggerimento di Emma, la donna con la quale sono in relazione, e dall’informazione avuta dal collega di lavoro Vittorio, comprai del suolo agricolo che era in vendita da alcuni anni perché non c’era chi lo voleva comprare.

Iniziò così la mia avventura di pioniere del “non fare” nel comune di Adro, con il chiaro obiettivo di iniziare a coltivare per aumentare i raccolti e i risparmi e riuscire a produrre diminuendo le fatiche e le spese.

Come hai tradotto tutto questo nella realtà del tuo podere, quali sono state le difficoltà che hai incontrato e come le hai superate?

Per spiegare come mai oggi raccolgo più degli anni passati e meno di quanto raccoglierò in futuro, bisogna partire dal passato del podere, se no è impossibile capire se traduco semplicemente come si presenta oggi il campo, cosa coltivo e raccolgo e quanto semino e risparmio.

Prima di me il podere era coltivato da due pensionati, che coltivavano anche un altro campo. Per arare, erpicare e seminare si facevano aiutare da chi aveva un trattore, perché avevano troppo da fare. Coltivavano il mais, facevano il fieno, raccoglievano uva da 120 viti e frutta da tre peschi, due amarene e un fico; oltre a queste 126 piante c’erano anche due robinie e un frassino.

Oggi, nello stesso podere esistono:

Per arrivare a questa realtà produttiva ho proceduto a tappe, in base al tempo libero, alla voglia di fare, alle mie forze e alla quantità di acqua piovana raccolta nella cisterna. Tutto il lavoro viene fatto a mano, usando arnesi semplici e pratici, escluso l’uso della motosega, per tagliare gli alberi troppo grossi.

Le difficoltà che ho incontrato col “non fare” sono state molte, ma sicuramente meno rispetto a quelle delle coltivazioni del fare.

Per le difficoltà di natura psichica immagina di incontrare persone che continuano a dare consigli, a fare delle critiche e a guardare come se vedessero un matto, soltanto perché coltivo e credo persino di produrre col “non fare”. Non so quante volte mi sono sentito dire: «le piante moriranno, patirai la fame, creerai un deserto e vivi solo perché hai la pensione.»

Per le difficoltà di natura fisica immagina di essere una persona che continua a seminare e a sperimentare nonostante molti insuccessi, raccolti scarsi e lavori improduttivi. Non so quante volte ho letto e riletto scritti sul “non fare”, viaggiato per visitare coltivatori e ambienti naturali, trasportato – con la carriola o la bicicletta – ramaglie, terricci, erbe e altre materie organiche prese in vari posti, per aumentare la fertilità naturale del suolo.

Per superare le difficoltà psichiche e fisiche ho tenuto nella testa la certezza e la sicurezza che la natura è più intelligente, più laboriosa e più produttiva di me.

Parlaci del posto dove vivi, delle tue coltivazioni (o non coltivazioni), della tua famiglia.

Abito ad Adro, un paese di quasi 7000 persone, situato presso le colline moreniche della Franciacorta, in provincia di Brescia. Il paese è posto ai piedi del Monte Alto, in posizione est sud ovest, confina con la Pianura Padana e si trova a circa 10 chilometri dal basso Lago d’Iseo.

Il Monte Alto è coperto interamente da boschi di castagni, robinie, roveri, frassini, carpini, querce, sambuchi, ciliegi selvatici e altre piante. Dalla cima si vedono il Lago d’Iseo e la Pianura Padana; con lo sguardo si può vedere da est a ovest i monti Guglielmo e Maddalena, Brescia e i monti emiliani, liguri e piemontesi.

Fino al 1960, il 75% dei 5000 abitanti di allora erano contadini, mentre ora meno del 2% coltivano la terra come coltivatori diretti. Sono nate diverse aziende viticole, artigianali e industriali, prodotte dallo sviluppo, che ha reso Adro un paese più arido, dove aumenta l’artificiale e diminuisce il naturale. La mia esistenza e il podere risentono di questa aridità, perciò continuo a seminare nel cuore della gente il rinverdire la Terra.

Il podere è un triangolo di terra circondato da vigneti coltivati col metodo industriale. Nel podere vivono serpenti, orbettini, ricci, merli, ramarri, lucertole, topi, talpe, lombrichi, mosche, libellule, crisope, coccinelle, sirfidi, afidi, zanzare, moscerini, api, bombi, ragni, cicale, formiche e altri esseri viventi, fra cui vari visitatori: fagiani, gatti, cani, lepri, rondini, pipistrelli, pettirossi, upupe, colombi, tortore e conigli selvatici.

Nel podere la vita è presente con le sue molteplici manifestazioni, ma basta andare oltre il confine e la desolazione si presenta sotto forma di monocoltura, poche specie animali e meno fertilità. In questo tragico contrasto lo spirito di Fukuoka si manifesta con la sua saggia profezia.

Nel frutteto mi preoccupo soltanto di raccogliere la frutta, mantenere i sentieri coperti di rami utili per fertilizzare e non compattare il terreno, tagliare l’edera, i rovi e le piante che lo coprono e basta.

L’orto devo coltivarlo se voglio raccogliere; comunque, anche qui il lavoro per coltivare risulta essere meno rispetto alle coltivazioni del fare, in più sta aumentando anche la produzione e la diversificazione degli ortaggi.

Coi cereali continuo a smarrirmi in tentativi che falliscono o danno una produzione poco significativa, perciò aspetto la giusta necessità di produrre in modo da coltivare e seminare sbagliando di meno.

Tutto quello che nel podere è fuori dalla mia volontà e non faccio partecipare ai miei desideri, come suoli e piante che non coltivo, diventano di fatto aree selvatiche.

La siepe, che circonda il podere, è formata da robinie, olmi, noci, ciliegi, castagni, frassini, prugni, gelsi, ligustri, peschi, mandorli, noccioli, biancospini, fusaggini, fichi, aceri, sanguinelle, passiflore, rosmarini, lavande, uve di Spagna e altre piante.

C’è Emma con me, una donna molto curiosa e attiva, capace di guardare in avanti e cambiare mentalità e comportamento quando capisce che qualcosa non va. Siamo molto legati affettivamente, ma viviamo in due abitazioni diverse. Uniti nei bisogni personali simili e liberi negli impegni sociali diversi.

Il tuo libro La rivoluzione della natura terrestre è una lunga ed elaborata disquisizione sul cambiamento che l’uomo dovrà fare se vuole sopravvivere a quello che Fukuoka chiamava l’incombente “Catastrofe Ecologica Epocale”. Ce ne vuoi brevemente parlare?

Nel testo dimostro che la Terra funziona come noi, anche se in maniera diversa, e che la pianta è una natura con la bocca, lo stomaco, l’intestino e l’ano. Inoltre affermo che l’universo è una natura spaziale e un dio temporale tridimensionale.

La “Catastrofe Ecologica Epocale” è una definizione fatta da alcuni scienziati, che Fukuoka ha reso pubblica. Nel libro la presento come credo fosse interpretata da questo saggio giapponese e non come la interpretano ancora oggi tali scienziati.

Per Fukuoka la vera catastrofe è il rischio che la vita sparisca dal pianeta terrestre. Nel libro spiego come iniziare nella società del fare a pensare, parlare e vivere anche col “non fare”, in modo da equilibrare le mentalità e i comportamenti che contribuiscono alla sparizione della vita.

La gente che pensa con la propria testa deve prendere coscienza che non può pensare, parlare e affrontare i problemi sociali, le tragedie umane e le catastrofi terrestri con la stessa mentalità e lo stesso comportamento che sono state prodotte tramite il troppo fare e il poco non fare.

È noto che i veri cambiamenti della vita possono avvenire soltanto quando si mettono in discussione comportamenti ignoranti, mentalità chiuse e credenze superstiziose.

D’altra parte, senza praticare un materialismo più cosciente, una filosofia più aperta e una religione più ragionevole, il cambiamento della mentalità non può avvenire oppure non si completa perché, anche se cambia il pensiero ma non il comportamento, questo resterà tale solamente fino a quando sarà di moda.

Alcuni sono lenti a capire, ma prima o poi capiranno, altri invece capiranno quando ormai sarà troppo tardi. Più la gente riconoscerà di vivere in un mondo di ignoranti e chiederà informazioni per trovare nuove risposte alle vecchie domande, più diventerà di fatto meno facile pensare, parlare e fare del pianeta come una cosa da usare o una risorsa da rifiutare.

D’altronde non esiste altra via. Se continueremo a inquinare la materia della Terra e inaridire l’energia del pianeta, alla fine la vita non potrà più esistere, mentre se continuiamo a guardare l’apparenza e non la realtà, crederemo di migliorare l’ambiente mentre invece stiamo solo peggiorando l’esistenza.

L’uso dell’energia pulita e nucleare non può diminuire il rischio che la vita sparisca sulla Terra, perché questo calore vitale necessario alla nostra esistenza può esistere e aumentare soltanto rinverdendo il deserto terrestre e rinnovando il cuore umano.

Quale filosofia sta dietro al “Rinverdire le zone aride della Terra”? Ci puoi fare degli esempi dove questo è avvenuto e con successo?

Rinverdire è una necessità della natura terrestre e quindi è anche un nostro bisogno vitale; non esistono altre possibilità per la nostra specie. In una società dove l’artificiale è ritenuto bello ed economico e il naturale brutto e caro, rinverdire il deserto terrestre è l’azione più rinnovatrice che il cuore umano possa fare oggi.

L’umanità deve essere grata a Fukuoka per questo suo semplice ragionamento: senza vegetazione si rompe la condizione che permette alla goccia di raggiungere il suolo passando dalle nuvole, perché sono le foglie che producono la formazione della pioggia.

La ragione del rinverdire quindi è basata principalmente sul fatto che senza piante le nuvole passano ma non rilasciano la pioggia, perché manca il legame che unisce la goccia al suolo. Nel deserto passano le nuvole cariche di umidità ma non può piovere perché manca il fogliame che lega l’umido alla regione.

Nel libro che ho scritto, questo fenomeno lo spiego in modo comprensibile e adatto al nostro modo di pensare, anche se non scrivo dove e come l’ho verificato nella realtà.

Ogni persona comunque può verificare che dove manca la vegetazione la pioggia diventa scarsa o ne cade tanta in una volta sola. Potrà non verificare visivamente come avviene il fenomeno ma, di certo, un collegamento mentale di come accade il fenomeno lo può fare con un’attenta osservazione.

Perciò, per equilibrare il ciclo delle piogge e regolare il passaggio della vita, è necessario rinverdire le zone spoglie di vegetazione della Terra, mettere in discussione la chimica di sintesi, lo sviluppo e altro.

Fukuoka ha presentato pubblicamente, con delle fotografie, zone desertiche rinverdite in soli cinque anni; se non ricordo male erano territori africani. Anche Panos Makikis ha rinverdito con successo delle aree in Grecia, ma poi sono arrivate le pecore, che sono più numerose dei greci e hanno reso di nuovo arida la zona. Ora una donna lo ha invitato a rinverdire il suo podere e quindi si spera che non lascerà entrare le pecore quando il suolo si coprirà di vegetazione.

Rinverdire i deserti terrestri è una filosofia teorica e pratica seminata nel cuore umano per rinnovarlo.

Quali sono secondo te gli impedimenti che non permettono di superare le titubanze e le difficoltà che inibiscono l’affermazione su larga scala dell’agricoltura naturale in Italia?

L’impedimento è la mentalità sociale che condiziona la libertà individuale, mentre le difficoltà sono i comportamenti sociali e individuali che rendono dipendente la gente.

Per spiegarlo racconto una storia accaduta a Fukuoka; accade oggi fra me e chi è titubante sul libro che ho scritto e accadrà sempre finché gli individui vedranno e ascolteranno qualcosa che è assente, ma penseranno e parleranno come se fosse presente.

Per tagliare corto racconto la storia in modo fantasioso; i fatti sono veri, le persone sono diverse e gli incontri sono avvenuti in luoghi differenti da come li scrivo.

Quando Fukuoka iniziò a parlare in Italia della sua coltivazione, entusiasmò tutte le persone presenti ai suoi incontri; fu così che queste persone iniziarono a coltivare col “non fare”. Ma a queste persone mancava la mente del “non fare”, perché avevano solo la mentalità tradizionale e moderna del fare e allora alla fine i raccolti ottenuti li ritennero minimi.

Mentre la minoranza di queste persone smise di coltivare col “non fare” perché delusa dai minimi risultati ottenuti, la maggioranza invece chiese a Fukuoka qualche scritto per conoscere meglio come produrre di più. Fu così che col libro La rivoluzione del filo di paglia Fukuoka diede loro un nuovo entusiasmo, ma siccome continuavano a riempire la mente col “non fare” e a mantenere la mentalità tradizionale e moderna del fare, allora quando raccolsero provarono un’altra delusione dai risultati ottenuti.

Mentre la maggioranza delle persone, ormai deluse e sdegnate dal giapponese, si persero di nuovo nel ritornare a coltivare col fare, la minoranza rimasta valutò il perché i loro raccolti risultassero minimi, mentre quelli di Fukuoka erano sempre massimi.

Questa loro semplice e ingenua valutazione li portò a pensare che Fukuoka scrivesse troppa scienza religiosa e filosofica, insegnando però poca scienza materialista di pratica agricola. Fu così che col libro La fattoria biologica Fukuoka scrisse più scienza pratica di agricoltura, mentre fissò nel testo meno scienza teorica religiosa e filosofica. In sostanza spiegò di più la sua esperienza attiva del fare e scrisse di meno del suo sapere passivo del “non fare”.

Con questa pratica conoscenza agricola le poche persone rimaste provarono a coltivare secondo l’esperienza fatta dal pioniere del “non fare”, ma anche in questo modo i risultati non arrivarono ancora. Così le ultime persone, senza aver appreso una personale conoscenza teorica e pratica del “non fare” e autonoma da Fukuoka, mandarono a quel paese il giapponese e ritornarono a coltivare col fare.

Questo è accaduto perché chi coltiva condizionato e dipendente dalla società del fare non libera la propria mente e quella altrui, ma preferisce legare l’autonomia privata e pubblica a conoscenze che rendono deserta la Terra, arido il cuore umano e non fanno affermare veramente il “non fare”.

Perciò l’accettazione comune dell’agricoltura naturale del “non fare” passa invertendo la tendenza della scala sociale basata sul fare. Non esistono altre possibilità, per cui chi vuole iniziare l’agricoltura naturale del “non fare” nella nostra società del fare, diventa di fatto un pioniere mentale molto solitario nella sostanza e poco comunitario nel comportamento.

Per affermarsi su larga scala i solitari del “non fare” devono seminare teoria e pratica di agricoltura naturale nella comunità del fare, spiegando perché serve rinverdire i deserti e rinnovare i cuori.

Quale consigli daresti a chi vorrebbe praticare l’agricoltura naturale del “non fare”?

Chi non ha mai praticato il “non fare” è meglio che inizi coltivando poco terreno per fare esperienza, coltivandolo però continuamente come se coltivasse col fare e stando attento a questi consigli.

Il primo consiglio è di aumentare la fertilità naturale del terreno, accettando le produzioni ottenute e riconoscendo il proprio limite. Se ci vogliono nove mesi per fare un figlio, immagina quanti anni potrebbero servire per avere suoli fertili, raccolti massimi e mente adatta al “non fare”.

Il secondo consiglio è di assistere il terreno valutando con equilibrio cosa si può fare e cosa non si deve fare; chi vive come coltivatore ha bisogni diversi di uno in pensione. Sul suolo fertile crescono bene gli ortaggi ma anche le erbe selvatiche e se si raccoglie meno all’inizio non vuol dire che non si raccoglierà di più proseguendo negli anni.

Il terzo consiglio è di cambiare mentalità e comportamento quando le cose non vanno come si desiderano, vivendo con una mente aperta e meno chiusa. Non è l’essere umano che produce e quindi, se non raccogliamo, non è il “non fare” che funziona male ma siamo noi a smettere di seminare e raccogliere ciò che cresce meglio o a desiderare prodotti che in quell’ambiente crescono peggio.

Il quarto consiglio è visitare ambienti dove l’umanità non vive né opera da 300 anni come minimo. Nella foresta vergine si impara prima cosa sono la fertilità naturale, la diversità biologica, la produttività ambientale e l’equilibrio ecologico.

Il quinto consiglio è conoscere popoli che coltivano con la stessa teoria e pratica agricola da almeno 500 anni. Chi conosce un popolo con queste caratteristiche, per praticare il “non fare”, può anche non leggere Fukuoka né visitare il suo podere in Giappone.

Il sesto consiglio è studiare i testi di Fukuoka e altre letture sul “non fare”; applicarsi con passione per continuare a sbagliare di meno col “non fare” e aumentare la fiducia nel coltivare costantemente col fare.

Il settimo consiglio è di leggere il libro che ho scritto e visitare il podere ad Adro per credere che con l’agricoltura naturale si può raccogliere anche in Italia, per ascoltare chi coltiva da 20 anni col “non fare”, senza aver mai avuto il minimo dubbio sulla sua validità e per vedere un paradiso terrestre utile a far ritrovare la fanciullezza nascosta.